Genova 1528, la peste dilaga in città. Uno scambio di missive tra un medico italiano e uno francese rinchiuso in prigione, che sostiene di conoscere il mistero sul moto sanguigno.
Ignazio incaricato di recarsi al nascondiglio del medico francese per consegnare un messaggio. Una porta chiusa. Una avventura che mette a rischio la sua vita e lo cambierà per sempre.
I segreti vengono svelati. Le mire dei due medici si palesano, e per Ignazio è il momento, suo malgrado, di conoscere tutto l'orrore che ne consegue. Nulla rimmarrà invendicato.
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[...] La fervida immaginazione di Paolo Di Pierdomenico ci catapulta in un’atmosfera gotica di grande impatto, fin da subito ci appare chiaro come l’autore abbia orchestrato al meglio una trama dall’intreccio sorprendente, sia dal punto di vista storico che da quello orrorifico. [...]
[...] Nonostante la brevità della narrazione, in prima persona, vengono sapientemente accostati fatti e personaggi storici realmente accaduti al mito: la guerra, la peste, l'inquisizione, l'alchimia, la protomedicina, i richiami al limite fra leggenda e religione, oltre all'elemento fantasy che emerge solo alla fine della narrazione. [...]
Il finale, che non vi anticipo, è una bomba.
Una delle penne horror e del fantastico più interessanti italiane è, di sicuro, Paolo Di Pierdomenico che, con la casa editrice Nero Press dell'Associazione Nero Cafè, ci propone il suo racconto lungo in ebook dal titolo De Motu Sanguinis, un lavoro interessate e dalla tematica e ambientazione accattivante. [...]
Puoi leggere qui sotto alcuni brani iniziali dell'eBook.
Correre. Devo continuare a correre, ma mi sento mancare il fiato. Oramai sono quasi sotto casa. Ecco il portone, la via è deserta. Solo una vecchia inginocchiata sull’uscio che piange e prega. Li sento, i campanacci del carro degli appestati. Non è lontano, forse deve ancora arrivare, forse sono in tempo. Forse, mi dico, non l’hanno ancora presa.
Spalanco la porta. La chiamo, Martina, come se potesse rispondere. Guardo nella stanza: non c’è. Mi precipito fuori e con l’aria fredda che brucia la gola riprendo a correre verso i campanacci, che mi guidano nel vicolo, poi nell’altra strada. In fondo alla via, ecco il carro. Una montagna di teste, gambe e braccia che sporgono, grigie, morte. Le ruote di legno vecchio, trainate da muli e spinte da uomini col cappuccio, gemono il lamento dei defunti. Lei è viva, lo so. Il sudore cola sugli occhi, il fetore della morte torce le viscere. Ci sono due guardie del Banco, alabardieri, naso e bocca coperti dagli stracci.
Scruto il mucchio di corpi finché vedo il pallore del suo viso. Sfodero la spada: «È viva!» urlo agli armati che alla vista della lama mi si parano di fronte.
Mi getto in avanti; uno m’incalza, d’anticipo devio il colpo e mi avvicino tanto da menargli di piatto sopra l’orecchio. Si piega sulle ginocchia, stordito.
L’altro è più cauto, vuole bloccarmi ma qui la strada è larga. Scatto alla sua sinistra. Da quel lato ha meno braccio; affonda, ma l’alabarda non mi raggiunge e l’oltrepasso. Quando si gira e cambia impugnatura, inverto direzione, gli vado addosso, punto la spada alla gola e con la sinistra afferro l’asta dell’arma. Si arrende.
«Mia moglie è ancora viva».
Un uomo col camice bianco corto e i capelli legati come un marinaio si avvicina: «La portiamo al lazzaretto, secondo i decreti».
«No. Rendetemela». Non si sopravvive al lazzaretto. Stanze senza finestre, né letti, né tavole, né casse, neppure un pugno di paglia per coricarsi.
«Chi sei?»
«Ignazio Musti da Loano, soldato di Genova di stanza alle carceri. E qui c’è mia moglie Martina».
La indico. I monatti incappucciati la traggono fuori dal mucchio, tirandola per le braccia, senza grazia di Dio. Martina muove debolmente gli occhi nella mia direzione. Quello col camice la osserva senza avvicinarsi, quindi squadra me, come per prendermi le misure.
«Abbassa le armi e solleva tua moglie. La porteremo all’ospitalizio di Saliceti. Lì verrà guarita o renderà l’anima a Dio».
È una soluzione insperata. Forse troppo.
«Non ho denaro per pagare il ricovero».
«Pagherai in servizi. Io sono Roggero, barbiere chirurgo, e sei fortunato ad avermi incontrato».
Martina è gelida tranne che per la fronte, rovente; la porto in braccio avvolta nel mio mantello e non ne sento quasi il peso da quanto è magra. Per tutta la strada, Roggero non dice nulla. Camminiamo lungo le mura e oltre, fino ai quartieri dei Saliceti adibiti a ricovero per i malati. Un recinto di pietra, una grande casa a due piani. Giungiamo al portone, guardato da tre armati.
«Aspetta, non puoi ancora entrare». Roggero mi blocca davanti all’uscio. «Sai chi è questo?»
Sul legno della porta è inchiodato un grosso battente e sotto è incisa una scritta. Roggero mi indica il battiporta, una testa con due facce.
«No».
«È Giano Bifronte. Una faccia guarda al passato, l’altra al futuro, ed è il simbolo del maestro Aloigi Saliceti. Saliceti è un medico laureato a Parigi. Sa preparare panacee per ogni male e, se il male è curabile, lui può scacciarlo; se è incurabile, può alleviare le sofferenze del moribondo». Guarda Martina. «Non si può chiedere di più a un uomo, per tutto il resto rivolgiti in preghiera a San Lazzaro. Ora leggi la scritta».
Lo guardo negli occhi. Lui fa lo stesso, mi sta mettendo alla prova.
«Non posso. Non so leggere» confesso.
Roggero sorride compiaciuto e recita: «Judex ergo cum sedebit, quidquid latet, apparebit: nil inultum remanebit».
«Non capisco molto di latino. È il motto dei Saliceti?»
«No». Mi guarda come se fossi un idiota. «Questo ammonimento l’hanno messo i francescani. Frati e monatti sono gli unici che vengono in questo posto. Qui si curano gli Spinola, i Fieschi, i Grimaldi e poche altre famiglie di levatura». Poi abbassa la voce, per non farsi udire dalle sentinelle. «Avrai gli stessi servizi per lei senza bisogno di sborsare niente, ma a patto che tu faccia tutto quello che chiedo, senza discutere. Me lo accordi?»
«Accordato».
Lettera di Aloigi Saliceti a Vittorio Alamberto, Genova, 25 Novembre 1528.
Illustrissimo Vittorio Alamberto,
anche se avete cambiato nome, avendovi visto tra i francesi arrestati, vi ho riconosciuto. Vi ricordo dai tempi dello studio parigino e certo anche voi non avrete perso memoria della nostre disquisizioni circa la rete mirabile di Claudio Galeno e il funzionamento dei vasi sanguigni.
Come voi allora, anche io oggi sono dissenziente dai testi antichi. Per questo sto scrivendo un libro, De Motu Sanguinis, dove riporto nozioni da me acquisite in questi anni in cui ho prestato servizio medico sulle navi da guerra del Doria e sulle galee di Filippino: tecniche nuove, come la legatura dei vasi per arrestare il dissanguamento e lezioni anatomiche sul fegato e sulla diramazione delle vene nel corpo.
La stesura dell’opera non procede speditamente quanto vorrei, a causa della pestilenza. Dirigo un ricovero in una mia tenuta che, in verità, mi fornisce molta materia di studio.
Mi è giunta voce che i vostri principali interessi sono simili ai miei e perciò, nonostante apparteniamo oggi a opposte fazioni, credo che potremmo collaborare. Cercherò di intercedere per voi, se avrò in cambio il vostro favore nel completare il mio libro.
Attendo risposta.
Martina fu sistemata in uno stanzone al piano terra. Faceva caldo: i muri della casa erano larghi un braccio e c’erano camini accesi su due lati. Lì era ricoverata una dozzina di malati e altri forse si trovavano ai piani superiori. In continuazione due o tre monatti, e ogni tanto qualche uomo in camice corto, andavano e venivano da una stanza all’altra e su e giù per le scale con impacchi, bende, secchi, vasi di vetro e altro.
Martina fu adagiata in un letto di paglia di fronte al fuoco dove la tennero per un giorno; le fecero bere del brodo caldo. I francescani vennero a recitare preghiere poco prima del tramonto. Fu aggiunta altra legna per tenere le fiamme alte durante tutta la notte.
Dormii per terra, con naso e bocca fasciati da un telo, ma mi svegliavo per i lamenti e il tossire dei moribondi. Martina però riposava più tranquilla degli altri, anche se le labbra tremavano nel sonno.
All’alba venne Roggero. Fece portare Martina, madida di sudore per il caldo e per la febbre, in un’altra stanza dove venne lavata. Quando la rimisero a letto era avvolta in un telo bianco molto pesante, odorava di erbe e cenere e sembrava tornata in sentimento. Scambiammo qualche parola, anche se la sua voce era così fioca da dovermi avvicinare con l’orecchio alle labbra per sentire. Le spiegai dove si trovasse e che doveva riposare e seguire le cure che le avrebbero salvato la vita; dopodiché si addormentò di nuovo.
Roggero mi prese da parte per istruirmi sul mio primo compito. Nel carcere dove prestavo servizio c’era un prigioniero, un certo Vittorio Alamberto: un medico francese che non era stato abbastanza furbo da rifugiarsi nel Castelletto prima dello sbarco del Doria. Avrei dovuto consegnargli una lettera, che Roggero mi diede insieme a un astuccio con dentro carta, piuma e inchiostro: il necessario per scrivere una risposta. La cosa andava fatta in segreto.
Fu facile trovare il modo di avvicinare il prigioniero: potevo accollarmi la mansione di portargli il cibo. La sera stessa, attraverso la porticina della cella Vittorio Alamberto si vide arrivare quel materiale e un moccolo acceso, insieme all’acqua sporca che era il suo pasto. Guardai dentro per vedere quest’uomo: era rossiccio di capelli, con sopracciglia quasi glabre e occhi chiari sporgenti sopra zigomi appuntiti dalla fame. Più tardi passai a riprendere la sua risposta, che quella sera consegnai al barbiere chirurgo.
Mi fu affidata una nuova lettera, il giorno seguente, e anche a questa ci fu replica e feci tutto allo stesso modo, senza che nulla si notasse.
Nel frattempo, Martina non era migliorata ulteriormente. Stavano curando le sue piaghe con impacchi odorosi di vino, ma era presto per vedere risultati.
Nel tempo da me passato all’ospitalizio non avevo mai incontrato Aloigi Saliceti, ma il giorno dopo aver riportato l’ultima lettera di risposta a Roggero, questi mi disse che il medico voleva parlarmi; sarei dovuto scendere nel seminterrato del ricovero, e attenderlo lì.
Risposta di Vittorio Alamberto a Aloigi Saliceti, Genova, 25 Novembre 1528.
Chiarissimo Doctor Phisicus,
la vostra lettera è stata, per voi, un azzardo: su di me infatti si mormorano accuse di eresia e un inquisitore mi ha già fatto visita per interrogarmi un mese fa. Fatto questo preambolo, aggiungo che mi ricordo alla perfezione di voi alla Sorbona: non indossavate ancora la veste lunga e decapitavate capre per dissezionarne la testa calda davanti a noi studenti più giovani, mentre dallo scranno il Magister balbettava senza sosta le menzogne galeniche.
Ricordo anche che né voi né chi era sopra di voi riusciva a dare spiegazione alle incongruenze che io notavo tra la teoria e la pratica, se non adducendo insulse argomentazioni sugli scherzi di natura che di tanto in tanto non corrispondono alla norma descritta nei libri.
Deduco dalla vostra lettera che vi siate ravveduto, e forse anche voi anelate bruciare i vecchi tomi come ha già fatto il saggio Paracelso a Basilea.
E voi? Vi ricordate di come entrambi a Parigi ci prodigavamo a scavare le fosse fresche del Cimetière des Innocents per trarne cadaveri da sottoporre ai ferri? Ma mentre io venivo scoperto e esiliato, circostanza in cui cambiai nome, voi ricevevate gli onori accademici e forse meditavate un Baccalaureato.
A quei tempi io già avevo capito molte cose e qualunque siano le esperienze da voi maturate, sappiate che le mie sono di certo più complete. È proprio seguendo Paracelso attraverso il suo viaggio in Polonia e Transilvania, e studiando dei veri scherzi di natura, che ho compreso la Verità sul funzionamento del moto sanguigno e di come l’umore rosso sia correlato a poteri per voi inimmaginabili, quali la guarigione dalle ferite, la fascinazione che la Bibbia attribuisce alle lamie e persino la rigenerazione degli arti; facoltà che, stando a quanto si sa sulle vostre condizioni, dovrebbe interessarvi.
Se queste lettere cadono sotto gli occhi indiscreti che mi osservano, saremo tutti e due sotto il martello degli inquisitori molto presto. Risparmiatevi quindi il vostro mercanteggiare e provvedete piuttosto ad affrettare la mia uscita di prigione, perché se finirò alla ruota, farò il vostro nome al primo tratto di corda.
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Abruzzese classe 1977, sin da piccolo divora romanzi di avventura e di genere fantastico. Sposato, laureato in Informatica, attualmente lavora in un’azienda di software. Nel corso della vita dà sfogo alla sua vena creativa dedicandosi alla musica elettronica, ai giochi di ruolo (premio Labyrinth 1999) e, dal 2007, anche alla scrittura di racconti di genere, ottenendo alcune pubblicazioni e riconoscimenti sul web.
La Polvere Di Cantor vince il premio Circo Massimo nel 2009. Nello stesso anno partecipa alla stesura – assieme ad altri sei autori – di un’opera in omaggio a De Cataldo, la novella noir Racconto Criminale (attualmente edita da Nero Press Edizioni e disponibile in free download sul sito dell’editore), ottenendo la vittoria nel concorso L’Adunanza.
È presente con altri racconti brevi nelle raccolte Corti (seconda e terza stagione) di Edizioni XII nel 2010 e 2012, e nel primo volume di Minuti Contati (Nero Press Edizioni, 2012).
De Motu Sanguinis compare per la prima volta in Fratelli di Razza, Mondo Digitale Editore, 2010.
Nel 2014 sarà presente con il racconto Ordalia del fuoco nell’antologia Dieci Lune Fantasy Spade e Sortilegi, di Bel–Ami Edizioni.
Ha anche ideato un romanzo ambientato in un prossimo futuro. Ce l’ha tutto in mente, ma conta di scriverlo e pubblicarlo in vecchiaia: i romanzi storici vendono molto meglio della fantascienza.
Nero Press Edizioni è il marchio editoriale dell’Associazione Culturale Nero Cafè.
La casa editrice si prefigge di pubblicare opere di genere che siano di qualità. Da queste parti non proferite la parola “editoria a pagamento”, perché per noi è blasfemia. Quel che pubblichiamo scaturisce dalla nostra volontà di credere nelle opere dei nostri autori. Ci prefiggiamo di rilanciare (e riscoprire) la letteratura di genere, sotto molteplici aspetti.
E-book alcuni dei quali disponibili gratuitamente.